Autore: Giuseppe Esposito

KOINè Nuove Edizioni

Pagg. 320 - Prezzo € 15,00

 
   

Complotti a Tebe

omicidio di un piccolo re

 

 
 

Con questo giallo, l'Autore cerca di far luce su uno dei più grandi misteri della storia dell'archeologia: Tutankhamon fu assassinato? E se sì, da chi?

Questo libro è una brillante elaborazione in chiave triller della morte prematura del giovane re Tut, la scoperta della cui tomba è stato il caso più clamoroso del secolo scorso. Una serie di episodi documentati vengono proposti insieme ad altri possibili o presunti, creando un'atmosfera degna dei migliori gialli d'autore. Il tutto è descritto con ottima "mano" e con sapiente indagine storica.

 

Alcuni passi del libro :

 

Incipit - Cap. I - Nefer-Keperu-Ra

La corona doppia, su cui svettavano le Due Signore, rotolò sul braccio, poi indugiò sulle ginocchia e quindi, quasi timorosa di essere causa del più grande cataclisma dopo il Nun, il caos primordiale, cadde al suolo, seguita dai lunghi nastri posteriori, sfiorando i sandali d’oro sotto cui erano incisi i Nove Archi, i nemici delle Due Terre. Pigramente la corona rotolò ancora per qualche istante, poi si fermò schiacciando contro la terra Nekhbet, l’avvoltoio Signora del paese del Sud, ed Uto, la dea cobra Signora del Delta.
Nefer-Kheperu-Ra tentò di alzare il capo e rivolse, per quanto glielo permetteva quella stanchezza spossante, lo sguardo al sole che moriva oltre le colline, quindi chinò la testa verso il petto ansante e si addormentò…per sempre!

 

XII

“Un bambino, Grande e Bel Dio, gli Dei preservino la Tua persona, è un maschio!” la levatrice, inginocchiata dinanzi a Neb-Maat-Ra Amenhotep, terzo di questo nome, aveva levato le mani all’altezza delle ginocchia del Re e lodato la bellezza del piccolo, la sua sanità di corpo e la sua già palese virilità che avrebbe garantito, a sua volta, la continuità dinastica.
Amenhotep, ormai anziano, ma pur sempre padre del piccolo, rivolse lo sguardo all’alto soffitto della sala del trono nella reggia di Djiaruka in cui anatre dalle ali splendidamente colorate volavano alte e si sentì pervaso dalla certezza che la sua discendenza diretta era salva.

 

XIV

L’acquitrino si stendeva a perdita d’occhio, enormi massi lucidi emergevano dalle nere acque e, di tanto in tanto, si ergevano improvvisamente più alti sollevando grandi nubi d’acqua; dalle nere narici gli ippopotami soffiavano aria e cambiavano la loro indolente posizione mentre piccoli uccelli dal lungo becco ripulivano loro la schiena.
Sulle rive, altrettanto indolenti, i coccodrilli si crogiolavano nel caldo sole morente e neppure minimamente si arrischiavano ad entrare in acqua o ad attaccare gli enormi pachidermi. Esisteva, tra i due mostri, un tacito accordo ed i coccodrilli, d’altronde, sapevano perfettamente che, specie in quei giorni, gli ippopotami li avrebbero, in ogni caso, riforniti di cibo... bastava aspettare!

 

XVI

Le mani, grondanti acqua, si riappoggiarono su quella massa informe, umida e maleodorante premendola e lisciandola; affondarono in essa spremendone l’acqua e scivolarono trasformandola lentamente in esseri splendenti di vita.
Khnum, il Grande Vasaio, sorrise di certo guardando quel suo discepolo del mondo umano, lui, Dio primevo che plasmava continuamente l’uomo sul suo tornio, non poteva che riconoscere la sua scintilla. Che plasmasse l’argilla, o picchiasse il suo mazzuolo sulla durissima diorite o sul granito, Thutmosi, scultore di Akhetaton, sapeva che suo compito era estrarre dalla materia ciò che essa certo già conteneva e che era lì, in paziente attesa di essere portata alla luce.

 

XXVI

La piccola sfera nera, lucida come uno specchio d'argento, rifletteva, deformandolo, il bel seno brunito dai cento e cento soli della sua terra lontana. Horemhab, la testa poggiata sul suo ventre piatto, guardava nella sfera incastonata nell'ombelico di lei e, se solo cambiava di pochi millimetri la sua posizione, vedeva riflesso il suo stesso occhio deformato allo stesso modo.
Poco oltre la minuscola perla, degna di una regina e di cui non se ne vedevano altre nelle Due Terre, un serico ciuffo di peli neri indicava ben altro e più prezioso gioiello. Non ricordava più il suo impronunciabile nome asiatico, ormai lei era, per Horemhab e per tutti, solo Ankh-Nefer, la Bella per Sempre.

 

XXXI

La microscopica goccia zuccherina stillò dal fiore e scivolò lentamente lungo i petali azzurri, si soffermò nell’incavo e proseguì nella sua corsa solo rallentata dal desiderio di cristallizzarsi nell’aria immobile, in ciò contrastata dal sole caldo di quella meravigliosa mattina che la costringeva nella sua dolce liquidità… l’ape volteggiò ancora a lungo sui petali poi, pigramente, si diresse verso il lago; qui sfiorò le acque immobili, si posò per un attimo sull’alto stelo di un giunco e proseguì nel suo volo. Là, poco più in basso, la giovane fanciulla sdraiata sull’erba la vide librarsi ancora per un istante nell’aria per poi sparire: “…cosa darei per essere libera come lei…”, disse rivolta al giovane che le stava sdraiato accanto.
Il torace muscoloso, di chi è abituato ad impugnare le armi, contrastava con le mani delicate che ora sfioravano i capelli di lei; gli occhi neri, in cui era quasi impossibile distinguere l’iride dalla pupilla, si soffermarono a lungo sul bel seno che il leggero abito lasciava ben scoperto…

 

XXXV

Il sottile oggetto di metallo si fece strada nella coriacea pelle e, lentamente, strisciò silenzioso verso il basso aprendo un lungo squarcio in cui, altrettanto silenziosamente, l’uomo si insinuò trovandosi nell’ampia tenda Hittita.
Due bracieri rendevano calda l’aria all’interno del vasto spazio, ma non per questi l’uomo sudava copiosamente mentre, al chiarore di lucerne ad olio sapientemente disposte per non turbare il sonno dell’occupante della tenda, si avvicinava alla multicolore pila di cuscini su cui due ombre dormivano strettamente abbracciate… era un inconveniente non previsto, l’uomo sapeva che una sola sarebbe dovuta essere la persona, ma non si scompose più del necessario, avrebbe solo dovuto organizzare la propria attività in maniera differente e confidare in un premio maggiore, visto che maggiore sarebbe stato il lavoro.
Era un professionista, e non sarebbe stato questo piccolo inconveniente a turbare la sua arte…non lo avevano forse reclutato perché era il migliore? Eppure, questa volta, un brivido freddo gli scorreva lungo la schiena insieme allo sgradevole rivolo di sudore, come se quella potesse essere la sua ultima missione!

 

XLI

La lunga coda di folla si fermò, trattenuta dal cordone delle Guardie Regie che sbarrava l’accesso al Sacro luogo, Ta-Set-Aat… il nuovo Re e la sua giovane Regina, preceduti dai sacerdoti ritualisti di Amon e dal suo Primo Profeta, proseguirono brevemente e, superato uno schermo di papiro su cui gli artisti avevano rappresentato il viaggio dell’Osiride nella Duat, e che escludeva lo sguardo dei comuni mortali dalle cerimonie segrete, entrarono nell’ampio, bianco, padiglione abbacinante sotto il sole rovente della Valle.
Una leggera bava di vento muoveva il lino dei tendaggi tra i quali si scorgeva un ancor più abbacinante luccichio; avvolto strettamente nelle bende bianchissime, il corpo del giovane Re campeggiava, al centro della tenda, ornato dei simboli del suo potere. Il copricapo nemes, d’oro come tutta la maschera che ne ricopriva il volto, splendeva di blu e dei preziosi colori provenienti da terre lontane che Egli mai avrebbe visto.
 

XLIV

La freccia lasciò l’arco e con una traiettoria leggermente curva volò sopra il campo, quasi si fermò alla sommità della parabola, poi precipitò verso il suo bersaglio accelerando impercettibilmente. Un leggero vento trasversale tentò di deviarla dalla sua corsa, ma la rossa impennatura che la qualificava come scagliata dal Re in persona, la mantenne stabile nell’aria finché incontrò il bronzo della corazza del Generale hittita.
Se il campo fosse stato più silenzioso, se non ci fossero state le urla dei combattenti e quelle dei moribondi, se il rumore delle ruote falcate dei carri hittiti e di quelle dei leggeri carri della terra di Kemi non avesse monopolizzato l’aria, si sarebbe allora sentito nettamente lo stridio del legno che attraversava il bronzo, poi il tonfo sulla leggera cotta imbottita che, non reggendo all’impatto, avrebbe consentito alla punta in metallo di penetrare profondamente nella carne traendone un risucchiante rumore che sovrastò definitivamente la vita del Generale.


L'Autore: Giuseppe Esposito è un ufficiale dell'Arma dei Carabinieri, già comandante delle Compagnie di Alba e Todi, è oggi impegnato presso la DIA.


 

 
 

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