AMBROSE BIERCE IN

 LA MORTE DI HALPIN FRAYSER

Prof. Francesco Lamendola per Misteria.org 

  Articolo pubblicato sul numero 5 (anno XXV) di settembre-ottobre 1987 di “Alla Bottega. Rivista bimestrale cultura ed arte”, Milano, pp. 40-4; e ora (marzo 2006) notevolmente ampliato e rielaborato.

 

IL SOGGETTO.

In una cupa notte di mezza estate Halpin Frayser, che giace addormentato sul terreno nel fitto di un bosco, si sveglia di colpo pronunziando un nome di donna: Catherine Larue. La cosa strana è che quel nome non gli dice nulla, poiché appartiene a una perfetta sconosciuta. Subito dopo si riaddormenta, e il suo sonno si popola si sogni paurosi.

Gli sembra di percorrere una strada interminabile fra gli alberi e, giunto a un bivio, di imboccare senza esitazione il sentiero sbagliato. Mano a mano che procede, ode bisbigli e sussurri in una lingua sconosciuta, finché, al tramonto, si accorge che tutto il bosco è orribilmente insanguinato. Sangue sulle foglie, sui tronchi, sulla sabbia: sangue dappertutto.

Halpin Frayser è invaso da un’angoscia crescente ed insopportabile, tuttavia, prima di arrendersi, compie un supremo sforzo di volontà e decide di fare appello agli spiriti benigni che forse, accanto a quelli maligni, popolano quel luogo. Con un ramoscello intinto in una pozzanghera di sangue, come colto da una ispirazione egli verga con ritmo febbrile le pagine d’un taccuino. Mentre sta scrivendo, l’eco di una risata paurosa erompe dal buio, si avvicina come una presenza malvagia, finché una figura appare dinnanzi all’uomo, che smette di colpo di scrivere: quella di sua madre. Ma negli occhi di lei non splende la luce di alcun sentimento: è soltanto un corpo senz’anima. Con un balzo, la donna gli è addosso e le sue dita stringono con forza sovrumana il collo del figlio. Dopo una lotta disperata, Halpin Frayser sogna d’essere morto.

Egli era nato trentadue anni prima a Nashville, nel Tennesse, da una famiglia della migliore aristocrazia sudista. Fin da piccolo aveva rivelato un’indole romantica e sognatrice, ereditata dal nonno materno Myron Bayne, un poeta abbastanza famoso dell’epoca coloniale, e dalla madre stessa, una bella donna assai lontana dallo spirito pratico del marito. Fra lei e il figlio, che la chiamava da sempre Kathy, si era stabilito un profondo legame affettivo, che era andato crescendo con gli anni e che li faceva scambiare sovente per due innamorati.

Ormai adulto, Halpin dovette un giorno partire per certi affari in California; a San Francisco fu “sanghaiato”, cioè arruolato con la violenza su una nave diretta in Oriente. Questa, poi, aveva fatto naufragio, e solo dopo sei anni egli era stato salvato su di un’isola del Pacifico e riportato a San Francisco. In attesa di ricevere notizie da casa, aveva vissuto per qualche tempo a St. Helena, e nel corso di una battuta di caccia si era smarrito nel bosco, di notte, e si era addormentato.

Il mattino seguente una strana nube fu vista sopra il monte St. Helena. Due uomini, che stavano salendo attraverso il bosco sgocciolante d’umidità, si trovarono avvolti nella nebbia. Erano Jaralson, vice-sceriffo di Napa, e un investigatore suo amico, Holker. Andavano a caccia di un assassino latitante, un certo Branscom o Pardee o qualcosa di simile, che aveva tagliato la gola alla moglie e si era poi dato alla macchia. Jaralson lo aveva scoperto che si nascondeva in un vecchio cimitero, e adesso, con l’aiuto dell’amico, voleva arrestarlo.

Ma, giunti nel cimitero, trovarono invece il cadavere di uno sconosciuto, gli occhi sbarrati a dismisura, il collo segnato dalla stretta di mani implacabili. Un taccuino lì accanto lo identificava come Halpin Frayser, e su di esso erano vergati dei versi che a Jaralson ricordarono lo stile del vecchio poeta Myron Bayne. Esaminando il terreno, i due uomini scoprirono che il corpo giaceva sopra la tomba di una donna di nome Catherine Larue. Allora, Holker si ricordò di aver già udito quel nome: era il vero nome del ricercato, e la moglie – una vedova arrivata in California per trovare dei parenti, si chiamava Frayser.

In quel momento si udì una risata non umana, simile al grido della iena, uscire dal bosco ed echeggiare fra le piante, ghiacciando il sangue nelle vene ai due uomini. Essa si spense poi di colpo, senza gioia, e fu seguita da un silenzio che pareva fuori del tempo. (1)

 

LO STILE E I CONTENUTI.

Nella Literary History of theUnited States  di Robert E. Spiller viene giustamente messa in risalto la relazione esistente fra il naturalismo dello stile di Bierce (2) e la dimensione fantastica dei suoi racconti “neri”: un naturalismo secco e disincantato, alla Stephen Crane, che ottiene l’effetto di rendere credibili fin nei dettagli le storie del terrrore.

"Peculiarly haunting is ‘The Death of Halpin Frayser’ with its interpolation of Bierce’s own recurrent dream, its Kafkaesque nightmare of the poet lost in the wood, its Freudian realization of the dominance of the sexual element in all relations of life.” (3)

Infatti, il fascino strano e inquietante del racconto, a nostro giudizio il più riuscito artisticamente fra quanti scritti dal Bierce, consiste proprio in questa commistione di elementi onirici autobiografici e di reminiscenze poetiche (dal Gordon Pym di E. A. Poe a certi racconti di Washington Irving), mirabilmente fusi e armonizzati, E, più ancora, nell’anticipazione – che ha del prodigioso -  di spunti psicologici che solo alcuni decenni dopo la cultura occidentale (qui siamo alla fine dell’Ottocento) avrebbe acquisito stabilmente. Il tema della incomprensibilità del reale, dominato da forze oscure, maligne e imperscrutabili, è uno di essi; la sua simbolizzazione nella scena del poeta che vaga di notte in un bosco insanguinato è un vero e proprio pezzo di bravura, reso ancor più efficace dall’assenza di qualunque sbavatura stilistica neoromantica.

Il tema delle relazioni sessuali inconsce è un’altra intuizione largamente anticipatrice sulla cultura del tempo (e specialmente nella puritana società americana fin de siécle (4). A proposito del rapporto esistente fra Halpin e sua madre, Bierce osserva: “In quelle due nature romantiche si manifestava fortemente un fenomeno di cui allora non si teneva alcun conto, e cioè dell’elemento sessuale dominante in tutti i rapporti umani.”(5)

Un altro tema ricorrente, e più singolare per i conoscitori di Bierce, è quello della presenza misteriosa degli spiriti nella vita dei mortali: spiriti buoni (soltanto immaginati) e malvagi, capaci d’incarnarsi  nei corpi e talvolta – e qui sta il colpo d’ala  del genio – di non incarnarsi in un corpo, il quale vaga così privo di anima. E quel corpo malvagio, spietato, appartiene proprio alla madre del protagonista, ch’egli aveva adorata in vita! Ma – avverte Bierce nell’introduzione al racconto – “si sa che certi spiriti benigni in vita, sono divenuti maligni dopo la morte.” (6)

Nel caso specifico di Catherine Frayser, senza troppo scomodare Freud e il complesso di Edipo, si potrebbe pensare che il “ritorno” del suo corpo privo di anima, simile a un mostro meccanico o a uno zombi del Voodoo, sia mosso da un desiderio di vendetta, da una volontà di “punire” il figlio che, partendo dalla casa dei genitori per motivi di lavoro (anche se non poteva prevedere che la sua assenza sarebbe durata ben sei anni) ha “abbandonato” la madre o, per dir meglio, l’ha “tradita” – anche se non con un’altra donna. E’ significativa, infatti, la scena in cui Halpin, nella loro casa di Nashville, annuncia alla madre che dovrà allontanarsi per alcune settimane, diretto a San Francisco: proprio in quel momento ella, che finge di non mostrarsi turbata (mentre si può immaginare che lo sia oltre misura), gli rivela di aver fatto un sogno di malaugurio e subito dopo, con aria distratta, chiede se in California vi siano delle sorgenti per le cure termali. Le sue dita, afferma mentre se le guarda, si sono irrigidite (proprio le dita che stringeranno a morte il collo del figlio, nella foresta insanguinata): è abbastanza chiaro che spera di essere da lui invitata ad accompagnarlo nel viaggio, ma ciò non avviene e Halpin parte da solo. Partenza che Catherine, giustamente, interpreta come una volontà, da parte di lui, di rendersi autonomo (pare, infatti, che non avesse mai lasciato prima la casa paterna); e l’autonomia psicologica è la premessa, per un giovane uomo, per l’autonomia affettiva e quindi per la ricerca di una compagna. Attenzione, Bierce non vuol suggerire che Catherine abbia fatto un ragionamento consapevole; il fascino del racconto è proprio nel non detto, in ciò che viene intuito, nel possibile; in una parola: nei meccanismi misteriosi dell’inconscio.

Davanti al corpo senz’anima che lo aggredisce, vana è quindi la resistenza di Halpin: “quale mortale può battersi vittoriosamente – chiede Bierce con una riflessione estemporanea che spezza il ritmo del racconto, amplificando il clima di suspence (è la tecnica dei grandi affabulatori: di Ariosto, per esempio)- contro la creatura nata dal proprio sogno?” (7)

Viene inoltre adombrata un’altra tematica, che sarà cara alla “letteratura dell’inquietudine” da Pirandello  (Sei personaggi in cerca d’autore) a Unamuno (Niebla), su su fino a Borgés: quella del personaggio che diventa autonomo e che incomincia a vivere di una sua vita propria, imprevedibile e spesso maligna, sfuggendo completamente al controllo del suo autore (in questo caso, al suo sognatore).

La viaggiatrice francese Alexandra David-Neel, a questo proposito, ha riferito come certi lama tibetani siano capaci di materializzare, con la sola concentrazione del pensiero, oggetti e persone; e che lei stessa ne fece l’esperienza, evocando una figura di monaco, la quale poi soleva comparire anche non desiderata, e anzi tendeva a farsi via via più minacciosa. Sulla stessa linea si collocano alcuni esperimenti che sono stati fatti, in ambito rigorosamente scientifico (ad esempio, dall’équipe di Andrja Puharich), di sintonizzazione del pensiero collettivo di un gruppo di soggetti su una entità immaginaria, la quale poi, attraverso sedute medianiche ma anche in altre maniere, sembra manifestare segni di una esistenza reale e indipendente.

Appena accennata, da ultimo, la problematica del conflitto tra realtà e immaginazione. Per dirla con il filosofo cinese Chuang-Tzu, una delle massime figure del taoismo: “Sognavo di essere una farfalla, disteso su un prato fiorito; poi mi svegliai. Ma ero io che avevo sognato di essere una farfalla, o era la farfalla che aveva sognato di essere Chuang-Tzu?” Nel racconto di Bierce, dove il protagonista, Halpin Frayser, sogna di vagare lungo una interminabile foresta illuminata da una rossa luce  paurosa e innaturale, qual è il confine tra sogno e realtà? Sta ancora sognando, quando ode la risata diabolica  e vede apparire il corpo di sua madre? Sta sognando anche quando lotta con quel corpo -una lotta dalle implicazioni sessuali abbastanza trasparenti e che ricorda, al tempo stesso, la lotta con l’Angelo del patriarca Giacobbe? Se è solamente un sogno, come mai Halpin Frayser muore veramente, strangolato? (Si ricordino i due figli minori de Sei personaggi in cerca d’autore: sono morti veramente? La bambina è davvero annegata in una fontana di scena, il bambino si è davvero ucciso con una pistola carica? Eppure, al riaprirsi del sipario, i sei personaggi son diventati quattro: i due piccoli non ci sono più…).

Viceversa: se quello di Halpin Frayser non è stato un sogno, ma realtà: donde è venuta quella figura agghiacciante che non è più veramente sua madre, e che mostra una specie di indifferenza supremamente mostruosa, proprio mentre lo sta uccidendo con le sue mani? Chi l’ha evocata? La morte di Halpin, dal punto di vista di lei, sembra quasi la vendetta di un autore che “cancella” un personaggio non riuscito o non più amato: la stessa madre che ha messo al mondo il proprio figlio (metafora della creazione di un personaggio letterario), si riprende la sua vita e lo fa precipitare nel nulla.

E lasciamo perdere, in questa sede, un interrogativo che ci porterebbe troppo lontano, ma che già Pirandello aveva adombrato: siamo proprio sicuri che il personaggio viene creato dal nulla? Non esisteva forse già da prima, in qualche luogo, in qualche dimensione altra, fino a quando il cosiddetto autore si è limitato a evocarlo? Don Chisciotte, che continua ad esistere secoli e secoli dopo la scomparsa di Cervantes, non è forse divenuto più reale del suo autore, e non potrebbe darsi che esistesse già prima e che avesse scelto quell’autore, per potersi manifestare? Allo stesso modo si dice che i figli, forse, scelgono i propri genitori prima della nascita: è una teoria, e vi accenniamo senza assumercene la responsabilità.

Tornando al nodo dei rapporti tra Catherine e Halpin, nel racconto vediamo adombrata la dialettica odio-amore che caratterizza il rapporto madre-figlio e, al tempo stesso, è descritta la materializzazione del sogno orrorifico, intuizione che tanta fortuna avrà nella storia del racconto “nero”; si pensi al celeberrimo The dreams in the Witch House di  H. P. Lovecraft, del 1933. Halpin Frayser, infatti, sogna di venir strangolato dalla madre, e il giorno dopo il suo corpo viene trovato sopra la tomba della madre, con evidenti tracce di strangolamento sul collo.

C’è poi la reminiscenza. Solo e disperato nella foresta rossa di sangue, Halpin si mette a scrivere versi nello stile del nonno Myron, lui che non ha mai saputo scrivere una poesia in tutta la sua vita. I versi, tra l’altro, sono di una bellezza crepuscolare che lascia intravedere in Bierce un poeta di qualche talento, se avesse dedicato più attenzione a questo aspetto della sua prolifica, e in parte prolissa, attività letteraria:

      Non canto d’uccelli o ronzìo di api,

     Non foglia stormiva agitata dalla brezza;

     Stagnante era l’aria, e il Silenzio

     Era una cosa viva respirante tra gli alberi. (8)

Da ultimo, consideriamo l’elemento “giallo”, quasi immancabile nella letteratura americana del tempo. Grazie a un gioco a incastro che ha continuamente avvicinato e allontanato il lettore dalla comprensione del quadro d’insieme (con la tecnica del flash-back, già magistralmente adoperata da Bierce nel famoso racconto A Occurrence at Owl Creek Bridge, l’autore nella parte finale del racconto dipana la trama, permettendo al lettore di ricostruire i contorni verosimili della vicenda.

Sulle orme di Jaralson e Holker veniamo a scoprire – per deduzioni successive – che Catherine Frayser, rimasta vedova qualche anno dopo la partenza del figlio e la sua misteriosa scomparsa, era venuta in California per mettersi alla sua ricerca, poiché San Francisco era l’ultimo luogo noto da lui raggiunto. Lì doveva aver conosciuto un ispettore di nome Larue (non Branscom o Pardee, come a Jaralson era sembrato di ricordare: e quella falsa pista ritarda sapientemente il coup de teatre finale) e lo aveva sposato. Ma non era stato un matrimonio felice, se a un certo punto si era concluso nel più tragico dei modi: Larue aveva assassinato la sua bella moglie, che era stata sepolta nel vecchio cimitero perduto tra i boschi della Valle di Napa, alle pendici del monte St. Helena.

Ironia del destino, suo figlio Halpin, la cui scomparsa le aveva spezzato il cuore, forse proprio in quei giorni era già tornato dal suo esilio forzato in una lontanissima isola del Pacifico, dove, novello Robinson, aveva vissuto in solitudine per alcuni anni. Forse era lì vicino, a San Francisco, di dove aveva scritto a Nashville per avere notizie di casa, e non sapeva nulla di quanto era successo: che suo padre  era morto, che sua madre aveva lasciato per sempre il Tennesse, che si era risposata e che era morta in circostanze estremamente drammatiche.

Evidentemente tormentato dai rimorsi, Larue, che si era dato alla latitanza, continuava ad aggirarsi nei dintorni della tomba di sua moglie, e lì era stato visto da Jaralson, che aveva minacciato con la pistola e costretto ad allontanarsi. Era questo il motivo per cui il vice-sceriffo di Napa aveva chiamato presso di sé l’amico Holker: in due, speravano di riuscire a catturare il ricercato.

Senza mezzi e senza amici, troppo orgoglioso per chiedere denaro a prestito, impossibilitato a partire subito per Nashville, come certo sarebbe stato impaziente di fare, Halpin aveva deciso di ingannare l’attesa della sospirata lettera dei suoi genitori spingendosi nei boschi, per una battuta di caccia. Aveva, però, smarrito la strada e, dopo aver girovagato senza essere riuscito a ritrovarla, all’imbrunire aveva deciso di fermarsi a pernottare, e si era addormentato, esausto e tormentato dall’ansia di avere notizie dei suoi. Il caso (ma si può credere veramente al caso, in una situazione del genere?) aveva voluto che il giovane si coricasse inconsapevolmente, nel buio, presso una macchia di vegetazione che nascondeva proprio la tomba di sua madre. Durante la notte il fantasma di Kathy – meglio,  il suo corpo senz’anima – ne aveva “sentito” la presenza ed era apparso per ucciderlo; cioè, come si è detto, per “punirlo” e “cancellarlo”.

 

BIERCE E LA CRITICA.

Famosissimo ai suoi tempi come giornalista, eccentrico fino alla leggenda (morirà misteriosamente durante la guerra civile messicana, come un personaggio dei suoi racconti), “bitter” Bierce, l’amaro Bierce, è stato alquanto ridimensionato dalla critica letteraria del secondo dopoguerra, sia negli Stati Uniti che fuori. Secondo Carlo Izzo, “l’uomo – critico spietato degli altri, quanto scarsamente autocritico – faceva più stima di sé e della sua opera di quanto non abbiano mostrato di fare i posteri. (9)

Uno dei giudizi più duri è però quello di Jacques-Fernand Cahen, per il quale Bierce “aveva l’arte di suscitare e di mantenere un’atmosfera d’orrore. Ma i suoi racconti sono solamente orribili, nel senso che non contengono idea alcuna. (10)

Abbiamo visto come ciò possa valere per altri racconti, ma non per La morte di Halpin Frayser, che anzi è ricco di anticipazioni notevoli, specialmente a livello psicologico. Samuel Lovemare, poeta e critico americano che fu anche amico dello scrittore, così sintetizza la qualità migliore dello stile di Bierce: “l’evocazione dell’orrore diviene per la prima volta non tanto la prescrizione o la perversione di Poe e di Maupassant, ma una atmosfera precisa e misteriosamente definita…  In The death of Halpin Frayser fiori, verde, rami e foglie di alberi sono posti magnificamente quale risalto contrastante alla malignità ultraterrena.” (11)

Tuttavia, questo racconto non è solamente un classico della letteratura gotica. E’ anche un magnifico pezzo narrativo, dallo stile efficace e sicuro; una miniera di osservazioni psicologiche (sulla morte, sui rapporti affettivi, perfino sui bambini); un giallo dalla costruzione sapiente e ben dosata; ma, più di tutto, un racconto in cui spira un soffio di autentica poesia, sospesa in una atmosfera nitida e rarefatta, della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni.

                                          

NOTE

1)   Facciamo riferimento alla traduzione italiana dei racconti “neri” di Bierce, initolata Una cosa infernale, Del Bosco ed., 1972.

2)   A. Bierce (Meigs County, Ohio, 1842 – Messico, 1914?), scrittore statunitense. Opere principali: The Dance of Death, 1877; Tales of Soldiers and Civilians (titolo cambiato poi in In the Midst of Life), 1891; Can Such Things Be?, 1893; The Devil’s Dictionary, 1906.

3)   Literary History of the United States, The MacMillan Company, New York-London, third edition, 1963 (fifth printing, 1966), p. 1.070.

4) Ecco il giudizio di una celebre americana, la danzatrice   Isadora Duncan (1878-1927): “si potrebbe dire che tutta l’educazione americana tende a ridurre i sensi a zero. La vera America non è cercatrice d’oro, adoratrice del denaro come vuol la leggenda, ma idealista e mistica. Non voglio dire con questo che gli Americani non abbiano dei sensi. Al contrario…” (da La mia vita, Savelli ed., Milano, 1980, p. 77).

5)   A. Bierce, cit., p. 141.

6)   Idem, p. 135.

7)   Idem, p. 144.

8)   Idem, p. 150.

9)   C. Izzo, La letteratura nord-americana, Sansoni- Accademia ed., Milano, 1967, p. 468.

10) J. F. Cahen, La letteratura americana, Garzanti, Milano, 1964, p. 59.

11)  Cit. in  H. P. Lovecraft, Opere complete, Sugarco, Milano, 1983, p. 45.