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Il senso della vita-morte (articolo di Antonio Bruno)

"Dedicato a Cecilia Gatto Trocchi" 

Se volessi iniziare questo intervento con una frase ad effetto direi forse qualcosa di  troppo banale come che il mistero della vita e della morte è il mistero stesso di Dio. Però ne avrei proprio voglia, di esprimere questa banalità perché, vedete, non è che le cose siano poi tanto diverse.
Possiamo abbracciare il credo che vogliamo oppure possiamo anche non abbracciare alcun credo, ma i termini del grande stupore che la vita (e, specularmente, del fenomeno detto "morte") suscita in ogni persona che non ha optato per un'esistenza supina al fato, non cambiano.
Vita e morte portano con sé gli interrogativi della mente raziocinante e questo bagaglio, questa specie di "condanna", ce la portiamo appresso da quando la nostra specie è apparsa su questo pianeta. Ma, se mi si permette il gioco di parole, è una condanna "vitale" e guai se non ci fosse! Se non fossero esistite le filosofie, le speculazioni e le scuole sapienziali le cui origini rimontano nella notte dei tempi, non avremmo meritato di ergerci a "razza dominante" della Terra. Certo, questo non basta per fare di noi i padroni del pianeta perché, come dice il famoso proverbio, non bisogna predicar bene e razzolar male. E, di certo, è da millenni, forse da sempre che "razzoliamo male".
Col binomio vita-morte, abbiamo sviluppato un rapporto che chiamerei "perverso", perché abbiamo lasciato sterili in noi, come genere raziocinante, interrogativi e conquiste intellettuali riservando ad esse solamente le individuali scelte ed i percorsi che soggettivamente l'individuo può seguire. Questo, in particolare, sul concetto di "vita". Per quanto riguarda la morte, ne siamo stati generosi dispensatori. Se, da un lato, ci ha sempre creato timore, paura, smarrimento, dall'altro ci siamo guardati bene dall'evitare di spargerla generosamente sul pianeta e, questo, dispensandola a larghe braccia a *qualsiasi* regno di vita. Abbiamo fatto del pianeta un cimitero.
Dopo svariate migliaia di anni la musica non cambia: la morte ci fa paura ma non facciamo niente per capire la vita. Eppure non c'è altra strada. Non possiamo predicare il rispetto della vita se non ne abbiamo un corretto concetto. E, qui, non si tratta certo di fare corsi di filosofia o di sviluppare chissà quali percorsi iniziatici: si tratta, "semplicemente", di lasciare che la vita ci parli, ci si manifesti senza incocciare nella nostra ottusa limitazione d'auto-inganno che confonde come "vita" le varie piccolezze o le grandi sofferenze della commedia esistenziale. Tale commedia ci ha sempre ingannato con i miraggi del possesso, del potere, dell'avere... in una parola, con la deleteria forma di menzogna chiamata *ego*. L'ego ha deturpato le nostre capacità cognitive fino a che, sopraffatti dal mistero finale, anziché arrenderci ad esso e lasciarsi andare al nulla che esso produce quando lo si affronta in chiave individualistica e unicamente del *qui ed ora*, abbiamo coniato l'inganno degli inganni: il concetto casualistico che, a sua volta, genera il nichilismo del materialismo più deprimente.
Non riuscendo ad entrare "in casa di Dio", abbiamo deificato il caso e ci si è cercati di consolare attraverso le soddisfazioni effimere di un sapere positivista che, però, non può mai essere definitivo. Ed è qui il dramma della scienza occidentale o, meglio, di quel cappotto di positivismo arido e deprimente che le si è voluto dare: credersi superiori ad ogni altra forma di sapere ma, al tempo stesso, essere tuttora circondati dal mistero e rendersi conto, se almeno si riesce a fare questo, che, purtroppo, non siamo in grado di formulare alcun concetto definitivo.
La perdita, dunque, del vero "senso della vita", è in definitiva la perdita di noi stessi e dell'universo, limitandoci ad ammirarne e studiarne la confezione ma non riuscendo più a sollevarne il coperchio.
Le tragedie che ci travolgono spesso, a livello sia personale che individuale, vengono subite e non capite. Ci creano una risposta di istintiva ribellione inducendoci a svalutare sia la vita che un eventuale senso di essa. ma, così facendo, non otteniamo altro risultato che darci la zappa sui piedi: suicidiamo noi stessi.
Angela Volpini, una pensatrice, ha scritto:
"Il senso della vita è l'opportunità che ogni uomo ha venendo al mondo ma che ben pochi raccolgono e sviluppano.
Tutte le culture elaborate dagli uomini nel corso della storia hanno trasferito fuori dell'uomo il senso dell'uomo.
Ogni cultura ha ritenuto necessario rappresentarsi un creatore, un principio vitale, un essere, un'energia come origine della vita e quindi padrone della vita stessa. Solo questa entità poteva dare il senso della vita dell'uomo. L'uomo non poteva che finire per accettare, come senso della propria vita, ciò che la cultura o la religione inerente il suo contesto storico gli offriva e gli proponeva.
Io credo che la sofferenza, la tristezza e forse la morte stessa è entrata nell'uomo proprio a motivo di questo fatto: sapere che vivi individualmente, soffri, speri, hai dei desideri, delle immaginazioni, delle intuizioni dentro di te, elaborate dalla tua psiche, ma tutto ciò non ha valore, non ha il potere di costituire il tuo io, la tua persona.
Tutto ciò che l'uomo avverte come proprio e su cui intuisce di avere legittimo potere, cultura e storia glielo sottraggono.
All'uomo non resta che il non senso della sua esistenza individuale da vivere come sofferenza e frustrazione. Anche la capacità creativa, gli affetti, i piaceri non sono sufficienti a dare un senso compiuto alla vita, perché questa, è come se appartenesse ad un altro anche se le sofferenze le registriamo individualmente.
A pochi uomini viene in mente che l'atto veramente creativo che un uomo può compiere è quello di darsi da lui stesso il senso alla sua vita.
Questa possibilità è la nostra unica possibilità. Davvero niente e nessuno può dare o togliere senso alla nostra vita se siamo noi che glielo diamo in tutta libertà. Se non glielo diamo, soggettivamente, non ci resta che raccogliere quello esterno a noi, quello che il nostro contesto culturale ha elaborato.
Questa accettazione espropria l'uomo dall'unico atto sovrano e fondante la sua stessa umanità come persona unica, consapevole e irripetibile.
L'uomo che non riesce a dare un senso personale alla sua vita è un uomo debole, sofferente e triste. E' un uomo che si sente scorrere la vita addosso senza poterla gustare, senza potere dire mai: << io sono e vivo come io penso debba essere la mia vita.
Solo nel desiderio resta intatta l'intuizione che si ha tutto il diritto e la libertà di dare alla vita il proprio senso.
Ma il desiderio, per la cultura e la fede tradizionale della maggioranza degli uomini, non è che sogno o fantasia ed anche in noi, sovente, non fa che aumentare la frustrazione.
La vita umana, come la vita in sé, non ha come finalità che quella di riprodursi. Solo nell'uomo la vita aspetta di essere finalizzata. Ed è proprio l'uomo e solo l'uomo che può finalizzare la sua vita alla pienezza che vuol dire: coscienza di essere uno, unico, originario-originale e comunicante e con ciò dare senso alla vita stessa, anche a quella non ancora arrivata alla coscienza.
Questo processo è un atto creativo: l'atto creativo per eccellenza, che rende l'uomo referente di tutto ciò che è, ed è in questo atto che l'uomo diventa persona. Il termine persona qui prende tutta la sua valenza di unicità e apertura alla relazione con tutto ciò che è. A questo punto il senso della vita è pieno, godibile ed esaltante.
L'uomo finalmente scopre che, avendo dato senso a se stesso, lo ha dato anche a tutto il mondo perché finalmente può porsi e sentirsi referente di tutto quello che c'è e offrirsi altrettanto.
Si comprende allora che ogni uomo diventato persona, attraverso il suo atto creativo, è la fonte della gioia e della conoscenza di ogni altro.
Le difese cadono ed incomincia la meraviglia della contemplazione.
Finalmente riusciamo a vedere quanto sia bello il mondo e quale opportunità straordinaria sia capitata a noi in questo mondo:
"Esserci"

Il 30% dei casi di depressione si producono quando la gente si rende conto che la vita non ha senso. Così lo dichiarano esperti in logoterapia della scuola psicologica fondata dal psichiatra austriaco Victor Frankl. "Il problema é che viviamo in un mondo nel quale è difficile trovare un senso alla vita, in primo luogo perché la scuola, la famiglia e la società stessa non ci hanno insegnato a cercarlo". Lo afferma Óscar Ricardo Oro, presidente della fondazione argentina di logoterapia, che venne in Colombia per esporre i principi di questa scuola di psicologia.
L'origine ebrea di Frank, lo condusse a dover sopportare lunghi periodi in campi di concentramento durante la seconda guerra mondiale. Sopravvisse a tutti applicando le teorie che già aveva sviluppato e che si fondano su principi molto semplici come "la vita, anche nei momenti peggiori, mai manca di senso".
(http://www.ecplanet.com/canale/salute-7/psicologia-84/1/0/14230/it/ecplanet.rxdf)

Se tutto questo, come credo, è vero, non possiamo begare che la nostra epoca ha accentuato il perpetuo errore umano di dimenticarsene. Commenti di sociologi, pensatori, filosofi e religiosi sull'aleatorietà dei cosiddetti beni materiali" si sprecano e pare diano fastidio al libero pensatore che non riesce a districare il bandolo della matassa in mezzo alla quale vita e morte, con le loro manifestazioni estreme, ci pongono. La morte, in particolare, ci trova del tutto soccombenti: nati e cresciuti in una società nella quale *scienza* è sinonimo di una razionalità che può e pretende di spiegare tutto in termini meccanicistici o casuali (potrei dire di una "meccanica della casualità"), quando la morte ci tocca da vicino, la nostra anima non sta più al gioco: chiede il conto. Il fragile castello di carte che le nostre paure avevano eretto si dimostra del tutto insufficiente non soltanto a colmare l'immenso dolore che la perdita di una persona cara ci provoca ma, soprattutto, l'incommensurabile senso di vuoto che, da essa, ci sommerge. Questo è l'errore imperdonabile del nostro occidentale "sapere razionale"! Se questo cosiddetto "sapere" ha superato la soglia del dubbio ed ha messo radici dentro di noi, possiamo star certi di essere diventati fuscelli al vento degli eventi, foglie d'autunno senza più vita che si lasciano trasportare dai soffi spesso crudeli di eventi di cui nemmeno sospettiamo le vere trame. C'è chi cerca di ribellarsi a questo stato di cose ma compie il terribile errore, spesso fatale, di ribellarsi non tanto al concetto di una scienza materialistica onnipotente che ci è stato inculcato bensì all'idea che possa *esserci altro*. E' una vendetta, una forma particolare di debolezza umana che somiglia a chi, non riuscendo ad avere qualcosa o a raggiungerla, la disprezza.
Ma non si può ingannare se stessi: la meta agognata nel profondo e che, per averla mancata, stiamo insultando, disprezzando, infangando creando di contro un credo del nulla, dell'apparenza, del puro caso, emergerà sempre, prima o poi, in svariate forme soggettive. La prima e più probabile è il senso di una profonda depressione dell'essere. Fronteggiarlo potrebbe creare un altro, tragico, delirante errore: inasprire l'avversità, negare che ci sia *altro*, sfuggire all'insopportabile senso di solitudine e di errore esistenziale che, se non fosse così, ci sommergerebbe. In questo caso, non si farebbe che affrettare la nostra condanna al *nulla*.

C'è, infine, un aspetto della vita che non va dimenticato: la spontaneità.
Voglio, allora, concludere questo intervento con le parole di un ragazzo, Matteo, che su Internet ha scritto al proposito:
"L'attività spontanea non è l'attività coatta, alla quale l'individuo è spinto dall'isolamento e dall'impotenza; non è l'attività dell'automa, che è assimilazione acritica di modelli suggeriti dall'esterno. L'attività spontanea è libera attività della propria essenza e implica, in termini psicologici, quello che la radice latina della parola, sponte, significata letteralmente: di propria libera volontà. Per attività non intendiamo il «far qualcosa», bensì quell'attività creativa che può operare nelle proprie esperienze emotive, intellettuali e sensuali, e anche nella propria stessa volontà. Un presupposto di questa spontaneità è l'accettazione della personalità totale, e l'eliminazione della spaccatura tra «ragione» e «natura»; infatti, solamente se l'uomo non reprime parti essenziali del proprio essere, solo se è diventato trasparente a sé stesso, e solo se le diverse sfere della vita hanno raggiunto una fondamentale integrazione, l'attività spontanea è possibile.
Benché la spontaneità sia un fenomeno relativamente raro nella nostra civiltà, non è che ne siamo completamente privi. Per aiutare a comprendere questo punto, vorrei ricordare al lettore alcuni casi in cui tutti incontriamo scampoli di spontaneità.
In primo luogo, conosciamo individui che sono - o sono stati - spontanei, i cui pensieri, sentimenti e atti sono l'espressione di loro stessi e non di un automa. Questi individui ci sono familiari per lo più come artisti.
Infatti l'artista può essere definito un individuo in grado di esprimersi spontaneamente, e proprio così lo definiva Balzac; in tal caso, anche certi filosofi e scienziati devono pure essere chiamati artisti, mentre altri che passano per essere artisti ne sono invece tanto lontani quanto un vecchio fotografo può esserlo da un pittore creativo. Ci sono poi altri individui i quali, pur non avendo la capacità - o forse semplicemente la preparazione - per esprimersi in un mezzo oggettivo come fa l'artista, possiedono la stessa spontaneità. Ma la posizione dell'artista è vulnerabile, poiché in realtà si rispetta l'individualità e la spontaneità del solo artista riuscito; se non riesce a vendere la sua arte, egli resta per i suoi contemporanei un eccentrico, un nevrotico, così come il rivoluzionario vittorioso viene poi considerato uno statista, mentre il rivoluzionario fallito non è altro che un criminale.
I bambini offrono un altro esempio di spontaneità. Hanno la capacità di sentire e pensare ciò che è veramente loro; questa spontaneità si manifesta in quello che dicono e pensano, nei sentimenti che i loro visi esprimono. Se ci si chiede perché i bambini piacciono alla maggior parte delle persone, credo che la risposta, a prescindere dalle ragioni sentimentali e
convenzionali, vada cercata proprio in questo carattere della spontaneità.
Essa attira profondamente chiunque non sia talmente arido da aver perduto la capacità di percepirla. In realtà non c'è nulla di più accattivante e convincente della spontaneità, in chiunque la si trovi."

Antonio Bruno

antoniobruno57@vodafone.it

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